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narrativa

25 Set 2017

Zaini e tagliatelle: quando impari a conoscere te stesso arriva anche la paura

Scritto da

“Era solo una relazione programmatica”, diceva Jerry Maguire nel film. Questo mio scritto non so ancora cosa debba diventare – una confessione, un atto di inaspettato coraggio, uno sfogo del giovedì sera? Forse solo una banale conclusione, alla quale giungo concatenando fatti ed elementi dopo otto mesi di analisi.

E non c’è traccia di vergogna, non un attimo di leggero pentimento nel pronunciare queste parole che da un pò mi  appesantiscono il cuore.  Piuttosto, cerco così di rincuorarvi con una dolce promessa: per quanto grandi, supererete le vostre paure – succederà quando sarete pronti ad imparare da loro quanto di voi sanno raccontarvi. Pondero così sulla Schellingstraße, mi accompagna il vociare degli studenti che affollano i ristoranti. Di fronte la pizzeria svolto a destra, sulla Türkenstraße. Ho voglia di un gelato; ho la sensazione oggi di averlo davvero meritato. Arrivo all’incrocio con la Theresienstraße. Al Ballabeni Icecream (che merita tutta la pubblicità del caso) mi decido per Olive&lime, Malaga e Joghurt. Un’armonia unica di sapori. Viva l’Italia. Quella dei malati di mente, chè Andreoli c’ha proprio ragione.

Correva il lontano 2011. La Lidap Onlus (Lega Italiana contro i Disturbi d’Ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico) riportò allora come circa 2 milioni e mezzo di persone in Italia, soprattutto donne, soffrissero di disturbi d’ansia. “Italiani, un popolo di fifoni” – citava più o meno così l’articolo del portale online LINKIESTA. “Vi piacerebbe”, pondero ancora un pò.

Infilo il cucchiaino in bocca con tremenda soddisfazione. Sfreccio a passo sicuro in direzione Englischer Garten: voglio rubare ancora un pò di tempo per me. Mi pare quasi di librarmi in aria, tanto che mi sento leggera. Un sorriso sereno mi si allarga sulla faccia; un senso di vittoria mi scalda il cuore. Ultimamente sogno tanto, sogno spesso. E ricordo dettagli; memorizzo parole. La psicologa mi dice che apparentemente sto “elaborando”, giocando la mia battaglia. E chi è qui il cattivo? Cammino e mi lascio accarezzare dal vento: arriva un temporale. Fifona? Sarà che questa Italia di se stessa parla troppo poco; usa spesso chili di fondotinta per coprire le rughe e divertenti mutandoni ascellari per rassodare e tonificare. Poi si guarda allo specchio, non si piace e piange. Tanto passa. La incantano, ripetendole che “è solo stanchezza”.

E’ stanchezza la sensazione di feddro nella quale ti rinchiudi, mentre aspetti in una sala d’aspetto, pregando affinchè la sesazione di vuoto che ti avvolge tutta se ne vada, all’improvviso così come è venuta? E’ stanchezza il pianto che ti soffoca, il tremolio di ogni fibra del tuo corpo che non sai come calmare, il sangue che senti - come liquido denso e ripugnante – pesarti nelle vene? E’ stanchezza il passo pensante, la voglia di svenire, le gambe che cedono in un’Augustusplatz a caso gremita di persone, mentre - occhi umidi al cielo - pari domandargli: “Quando arrivi per potarmi via?”. Sono stanchezza i giorni a digiuno, le notti insonni, i battiti che il cuore sembra doverti scoppiare – e invece? E’ ancora stanchezza lo schifo, il lungo strisciante pitone nero, un groviglio di liquiami e vecchie paure, che piano ti si arrotolano attorno all’anima? Senza rumore, sibilano le loro formule di veleno all’orecchio e incantano la mente con credibilissime bugie. Ma io vi voglio rincuorare: no, non è stanchezza.

Mi siedo nella metro. Pancia piena e contentosa – mi sento una leonessa. Gente và; gente viene. Io aspetto.

Nella stanza che di solito mi accoglie ogni lunedì oggi mi ci sono catapultata in ritardo. Dovevo occuparmi di alcune interviste e di un testo che domani dovrò assolutamente finire. L’appuntamento era per le sei. “Non ce l’ho fatta; è arrivata una cosa all’ultimo minuto”: voglio scusarmi forse più con me stessa per i dieci minuti di ritardo. “Non hai avuto il coraggio di mettere le tue priorità”. Eccolo, il senso di colpa che si esprime con forza nel predicozzo della doc. Ha ragione, la scusa del lavoro non regge. Bastano pochi minuti. A stò giro con le lacrime arriva anche la stanchezza. E poi giù a scavare nelle mie paure, in una me stessa che mi spaventa. Quella che un’ora più tardi ho la forza di rimettere al suo posto, per le strade di Monaco.

sereBasta un’ora. A parlare dei miei sogni. Non i desideri, chè quelli li lasciamo alle stelle. I miei sogni: parlo di quelle finestre di magia che si affacciano sulle profondità del nostro inconscio, ad incontrare un subconscio onirico e immenso. Mi spaventa a volte. Mi spaventano i combettenti dell’ISIS che lo popolano e io, mio padre e mio fratello che ci salveremo solo raggiungendo le taglietelle della nonna Sara. Voi riderete. Mi spaventano i cavalli che scappano e il trattore enorme che ci insegue, la mia nuova istruttrice – biondissima e perfida – ad urlare. E io che mi dispero, non trovando più lo zaino.

Forse si, questi brevi anfratti di tempo hanno le forme delle mie piccole battaglie quotidiane. Pondero, avviandomi per le stradine di Kieferngarten. Penso a quelle quattro mura che mi accolgono, mi danno calore, ma che non sono e non sento mie. Penso al weekend di febbre e malinconia, passato in un letto. Quella voglia disperata di casa – di trovarla, costruirla e accudirla. Quella voglia matta di una famiglia -  cercarla, darle vita e amarla. Fanno male a volte i desideri; spingono sul cuore come lame di vetro affilate. Penso alle coperte che mi si attorcigliano addosso. Il senso di solitudine che mi attanaglia, acuitosi dal giorno della morte di una delle persone che amavo di più. I progetti crollati all’improvviso. E la difficoltà di ricominciare, l’arte che ho dovuto imparere in fretta e che ho perfezionato nel tempo. Tanto che, a forza di ripartire sempre da capo, ho finito per non curarmi del faticoso mestiere del “continuare”. Rivedere, migliorare, aspettare – a me sti verbi non sono mai piaciuti.

Si accende una lampadina di fronte al mio portone di casa. Il gatto del vicino si struscia ai miei piedi voglioso e le parole della doc mi suonano in testa: “Forse, con combattenti ISIS e trattori giganti, stai affrontando una battaglia della quale non ti stai ancora rendendo conto”. Quindi fatemi capire: il mio Santo Graal sono zaini e tagliatelle? Ma è proprio in quel preciso istante, nel pensiero di piatti di pasta e borse abbandonate che tutto ad un tratto pare più chiaro.

L’ESEMeD, il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali effettuato tra il 2001 ed il 2002 su sei paesi europei (tra i quali anche l’Italia) portò alla luce dati decisamente poco confortanti. In Europa la percentuale di coloro che, soffrendo di problematiche di ansia o di depressione, si sono rivolti a una struttura sanitaria è stata solo del 26 per cento. Di questi solo i due terzi ha consultato un operatore dei Servizi di Salute Mentale, mentre gli altri si sono affidati al medico generico. Al 2016 non fa piacere che il CnR (consiglio nazionale per le Ricerche) accertasse che nove italiani su dieci  negassero di avere un disagio psicologico, pur soffrendone in qualche misura. In un certo senso si: italiani fifoni.

Giro la chiave nella toppa. Accendo il computer perchè ho bisogno di scrivere, raccontare che non so dove le mie paure e le mie piccole grandi battaglie di ogni giorno mi porteranno. Eppure, ad oggi, i piccoli grandi momenti che segnano i colori e i contorni di quel bellissimo mosaico che è la mia vita paiono avere più senso. Ha senso papà che mi obbliga a stare nel mio lettino. Ha senso quel primo giorno di lezione su Picchio. Fa senso Eleonora che non mi fa giocare con lei; fa senso anche Marchino che, del tutto ignaro della cosa, mi invita a casa sua per un pomeriggio divertente tutti assieme. Fanno senso le passeggiate a Forte Dossaccio, la roulotte dei nonni, il latte caldo di baita la mattina, le partite ad asino con lo zio Antonio. E fanno ancora senso Sandra, Marianne e Falk a Cervia. Nella sua totale imcomprensibilità, fa senso Angelo che mi dice io non sappia cavalcare, Rocco che sostiene io sia nata per quello. Un meraviglioso senso è la prima volta con te Chris, le prime passeggiate con Amadeus e anche il suo “nel caso abortirai”. Senso ne fanno gli amici preziosi che ho perso e acquistato. Ferito e amato.

Parlatene allora di quelle paure. Parlatene al lavoro, se sentirete di averne bisogno. Con Daniela che dalla sua scrivania ascolta e piange con te. La comunicazione non ha mai fatto male – nè ai team, nè alle persone. Affrontatele in tutto il loro splendore quelle benedettissime paure e vi porteranno in dono il più prezioso dei tesori: la conoscenza, la comprensione di e per voi stessi.

 

Il temporale non è mai arrivato. Ma esplodono i fuochi d’artificio all’Olympiapark. In effetti, stasera dobbiamo festeggiare.

 

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Serena Garulli

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